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Vorrei consigliare la lettura di due articoli, “Questa scuola non è un’anagrafe”, di Alessandro D’Avenia e “Mal di scuola digitale” di Roberto Casati, e inoltre invitare a riflettere sulle parole nuovo, giovane, riforma, digitale considerate di per sé con un’accezione positiva. Se non si abbraccia questo modo di pensare si sprofonda nella palude, metafora molto diffusa e vincente che serve a non esaminare mai gli svantaggi delle innovazioni via via proposte come panacea risolutiva, a non interrogarsi mai su nulla, a dare per scontato che nuovo sia sinonimo di giusto, indipendentemente dal contesto, dalla qualità dell’innovazione e dal metodo con cui si intende attuarla. Chi si preoccupa del fatto che il tempo degli studenti sia colonizzato dalla tecnologia e dubiti che ciò possa avere effetti esclusivamente positivi sull’apprendimento, ad esempio, è un neoluddista, come ironizza Roberto Casati nell’articolo di cui al link sopra riportato.
Scrive Alessandro D’Avenia: «Nella relazione scolastica tre sono gli elementi indispensabili: amore per ciò che si insegna (conoscenza e passione: studium), amore per il chi a cui si insegna (empatia: non sentimentalismo, ma riconoscimento dello studente come soggetto di un «inedito stare al mondo» e non oggetto da cui ottenere prestazioni), amore per il come si insegna (creatività didattica che rinnova ogni lezione in base ad allievi e contesto: metodo). Senza questi tre elementi la relazione non si dà e genera contro-effetti: noia, avversione, disinteresse. ». 
Come tutto ciò si possa misurare mediante gli esiti dei test INVALSI che sarebbero strumento idoneo per valutare i docenti, prima di essere offensivo, è assurdo. Oscuro rimane inoltre come poi si possano selezionare gli esaminatori dei futuri docenti con l’unico criterio, oltre all’abilitazione, di avere insegnato la disciplina oggetto d’esame per almeno cinque anni, requisito minimo richiesto sia per la selezione degli esaminatori del cosiddetto “concorsone” dell’anno scorso, sia per gli esaminatori futuri dei cosiddetti PAS. Se poi un aspirante ha seconde lauree, seconde abilitazioni, dottorati di ricerca, master, abbia seguito e tenuto corsi di perfezionamento, aggiornamento, pubblicazioni, abbia esperienza di insegnamento in più scuole e su più classi di concorso, si candidi pure, ma se non ha tutto ciò va bene lo stesso: nessuno verrà escluso se ha insegnato per almeno 5 anni la materia. Come l’abbia insegnata e con quali titoli, oltre al lustro, non interessa: così magari è più facile stilare la graduatoria!
Con siffatta selezione forse si possono valutare e promuovere solo quei docenti che Alessandro D’Avenia chiama “indocenti” che “non insegnano, perché non imparano dai ragazzi, la loro classe si appiattisce sulla prestazione (programma ed esame diventano l’orizzonte di autorità)” oppure gli “in-decenti” che “non conoscono ciò che insegnano e trasformano la classe, presto connivente, in chiacchierificio e poltiglia educativa”.